islamofobia

«I nodi stanno venendo al pettine tutti insieme» osserva Daniele Albertazzi, docente di storia politica dell’Europa e grande esperto di nuovipopulismi all’università di Birmingham.La tensione razziale che mette Dallas e l’intera America di fronte a un problema paradossalmente ingrossatosi durante i due mandati del primo presidente nero, la Gran Bretagna tentata prima dall’addio a Bruxelles e poi dall’incolparne in qualche modo i connazionali di origine straniera, l’Italia che si sveglia attonita di fronte alla rabbia omicida di Fermo: l’occidente sembra in preda al panico e l’amplificazione digitale dell’hate speech, l’incitazione all’odio, trasforma quelle che un tempo sarebbero state tensioni sociali territorialmente contenute in piccole guerre glocal.

I dati disegnano un quadro quantomeno preoccupante. Un nuovo rapporto del Southern Poverty Law Center indica che nelle scuole degli Stati Uniti crescono paura e tensioni razziali: due terzi dei professori intervistati sostengono che gli studenti immigrati e i musulmani hanno paura delle elezioni di novembre, un terzo ha notato una effettiva crescita dell’intolleranza in classe e 40% evita di parlare delle presidenziali. In Gran Bretagna, secondo la British Social Attitude, il post Brexit ha visto crescere fino al 50% la popolazione con una impressione negativa della immigrazione e il National Police Chief’s Council stima che una settimana dopo il referendum del 23 giugno gli episodi di xenofobia erano aumentati del 400% (331 casi di hate crime contro una media settimanale di 63).
In Italia, registra il Cospe, il 205 ha visto lievitare antisemitismo, islamofobia e xenofobia. Ma le cosse vanno male anche in Germania, dove uno studio di giugno di Amnesty International (“Living in insecurity: how germany is falling victims of racist violence”) documenta un boom di attacchi contro i centri che ospitano rifugiati e richiedenti asilo (solo lo scorso anno gli hate crime sono stati 15 volte di più che nel 2013 e gli hate speech l’87% in più). In Polonia, uno dei Paesi ex sovietici entrati nell’Ue con l’allargamento, Adam Bodnar della locale Commissione for Human Rights denuncia alla Gazeta Wyborcza un’impennata di razzismo (la Gazeta sta pensando di chiudere la sezione commenti online per i toni xenofobi dei lettori): «Ciò che è interessante e rappresenta probabilmente il nuovo trend è che la gente non ha più remore a dire ciò che pensa ad alta voce, ogni due settimane abbiamo notizie di attacchi razziali».
Per capire cosa sta accedendo, continua Albertazzi, non basta però la crisi economica che dal 2008 ha visto notevolmente impoverirsi la classe media occidentale: «Il problema che abbiamo di fronte è un problema d’identità. Se prendiamo la Gran Bretagna come esempio, ciò che ha funzionato per i sostenitori del Brexit è stata la campagna contro la libera circolazione dentro l’Ue, se in Italia ci si concentra su gli extra-comunitari nel Regno Unito l’attenzione e la paura sono rivolte invece verso chi arriva da dentro l’UE nonostante Londra sia stata tra i maggiori sponsor dell’allargamento a est in funzione anti Russia. Sul piano economico l’economia britannica ha beneficiato dell’allargamento e anche la ripresa dalla crisi del 2008 è molto forte, ma il Brexit prova come l’idea che l’immigrazione sia economicamente utile non funziona. I partiti populisti non prosperano solo nei periodi di crisi ma anche in quelli di vacche grasse. Basta guardare la Findalia felix o l’Austria che in barba all’opulenza nazionale potrebbe eleggere un presidente di estremissima destra. Da almeno due decenni le destre radicali crescono anche dove non si sta affatto male. E allora? Allora è utile guardare al parallelo degli Usa, dove chi oggi sostiene Trump, così come i pro Brexit, viene anche da quella classe media bianca che ritiene di essere stata privata dalla globalizzazione di identità e ciance. Al referendum gli inglesi non hanno risposto se fossero o meno contenti dell’Europa ma se i propri politici avessero o meno fatto i loro interessi (e hanno risposto di no)».
Se parliamo di crisi d’identità più che di finanze domestiche, argomento su cui sono d’accordo anche altri esperti di “politica e linguaggio dell’odio” come Arthur Goldwag, autore di una specie di Bibbia della materia (The New Hate: A History of Fear and Loathing on the Populist Right ), bisogna di nuovo ricorrere alle statistiche. Tra gli studi più documentati ci sono quelli del Center for problem-oriented politicing che citando il National Crime Victimization Survey disegna questo quadro. Dall’inizio degli 2000 gli hate crimes (i crimini motiva dall’odio) sono diminuiti in generale ma sono aumentati molto tra i giovani (circa 169 mila vittime l’anno), il 90% sono motivati da scontri razziali o etnici, sono più violenti dei non hate crimes (oltre l’85% sono violenti e solo il 13% riguarda reati tipo furti, l’opposto dei non hate crimes), il 54% delle vittime non denuncia l’aggressione alla polizia, nel 58% dei casi la tensione è legata alla razza.
«Nella storia dell’uomo c’è sempre stata un componente minoritaria della popolazione di orientamento di estrema destra pronta ad attivare l’odio identitario, c’è stata nel XVIII secolo, nel XIX, nel XX ci siamo distratti con la guerra fredda ma il razzismo è sempre stato lì, appostato in qualche angolo – ragiona Arthur Goldwag -. Poi è arrivata la crisi economica e più ancora che ridurre alla fame la classe media ha mostrato come la globalizzazione fosse stata molto buona per i molto ricchi e chi non lo era si è sentito ingannato e ha reagito con rabbia crescente. La paura e l’odio sono il termometro di una crisi che è quella del capitalismo, una crisi identitaria oltre che economica in cui le classi non ritrovano più il loro posto, il lavoro fatto non corrisponde alla rendita che produce, il nazionalismo non funziona più a difendere gli interessi del popolo che gli corrisponde, le diseguaglianze culturali sono aumentate rendendo tutto molto più confuso perché oggi il livellamento è transazionale e ad essere più tolleranti sono i più colti, benestanti e cosmopoliti». Da questo punto di vista anche i due mandati del primo presidente nero d’America possono aver nuociuto a chi, nella middle class bianca, i leggendari wasp, si sente sotto assedio, minoranza in casa propria.
Mala tempora, concordano gli studiosi. Goldwag nota che “storicamente le rivoluzioni non esplodono quando le cose vanno molto male, esplodono quando vanno abbastanza bene in generale ma una parte della popolazione va male”. Gli arrabbiati di oggi, continua, «sbagliano ma hanno ragione su un punto, le cose non torneranno più indietro e il futuro dei loro figli sarà certamente diverso in peggio da quanto hanno vissuto loro. E questa sensazione di sconfitta è moltiplicata dalla comunicazione sul web, è la stessa vissuta dagli uomini dei secoli passati ma circola di più, così come oggi via internet i Protocolli dei Savi di Sion sono più diffusi di quando furono scritti e smascherati come falso».
E c’è la Rete, croce e delizia del villaggio globale. «Internet fa da cassa di risonanza – spiega Albertazzi -. Twitter ormai influenza la vita politica più della realtà. I social sono media anarchici, senza controllo, quando Beppe Grillo non rilasciava interviste tutte le prime pagine dei giornali erano su cosa scriveva il suo blog e in questo modo Grillo influenzava l’agenda delle notizie. E’ la stessa cosa del video su Facebook in cui la ragazza nera filma il poliziotto che spara al suo compagno, l’effetto è immediato, incommensurabile con quando in passato si distribuivano volantini. Il messaggio magari è lo stesso ma viaggia alla velocità della luce, dietro al razzismo c’è il disagio di chi non ha più neppure l’illusione di controllare il suo futuro e reagisce con rabbia contro le elite anche quando le elite non sono responsabili di tutto. Obama, per esempio, al netto dei suoi errori, non è imputabile della perdita di potere globale degli Stati Uniti in un mondo multipolare. In questo senso l’odio a cui assistiamo è legato all’identità: quello del passato era legato allo schiavismo e a un’idea folle di superiorità, l’odio di oggi è legato all’autodifesa di chi si sente diventato una minoranza in casa sua, al disagio dei bianchi nei quartieri molto etnicizzati che danno la sensazione di un’invasione di stranieri anche se numericamente invasione non è, alla voglia di vendetta contro le elite politiche che per farsi eleggere promettono quanto in un mondo globalizzato non possono mantenere, è un odio che monta dalla pancia e colpevolmente i populisti di ogni latitudine cavalcano per essere rilanciati dai media». E poi a un certo punto tutti i nodi vengono al pettine.

I dati disegnano un quadro quantomeno preoccupante. Un nuovo rapporto del Southern Poverty Law Center indica che nelle scuole degli Stati Uniti crescono paura e tensioni razziali: due terzi dei professori intervistati sostengono che gli studenti immigrati e i musulmani hanno paura delle elezioni di novembre, un terzo ha notato una effettiva crescita dell’intolleranza in classe e 40% evita di parlare delle presidenziali. In Gran Bretagna, secondo la British Social Attitude, il post Brexit ha visto crescere fino al 50% la popolazione con una impressione negativa della immigrazione e il National Police Chief’s Council stima che una settimana dopo il referendum del 23 giugno gli episodi di xenofobia erano aumentati del 400% (331 casi di hate crime contro una media settimanale di 63).

In Italia, registra il Cospe, il 205 ha visto lievitare antisemitismo, islamofobia e xenofobia. Ma le cosse vanno male anche in Germania, dove uno studio di giugno di Amnesty International (“Living in insecurity: how germany is falling victims of racist violence”) documenta un boom di attacchi contro i centri che ospitano rifugiati e richiedenti asilo (solo lo scorso anno gli hate crime sono stati 15 volte di più che nel 2013 e gli hate speech l’87% in più). In Polonia, uno dei Paesi ex sovietici entrati nell’Ue con l’allargamento, Adam Bodnar della locale Commissione for Human Rights denuncia alla Gazeta Wyborcza un’impennata di razzismo (la Gazeta sta pensando di chiudere la sezione commenti online per i toni xenofobi dei lettori): «Ciò che è interessante e rappresenta probabilmente il nuovo trend è che la gente non ha più remore a dire ciò che pensa ad alta voce, ogni due settimane abbiamo notizie di attacchi razziali».

Per capire cosa sta accedendo, continua Albertazzi, non basta però la crisi economica che dal 2008 ha visto notevolmente impoverirsi la classe media occidentale: «Il problema che abbiamo di fronte è un problema d’identità. Se prendiamo la Gran Bretagna come esempio, ciò che ha funzionato per i sostenitori del Brexit è stata la campagna contro la libera circolazione dentro l’Ue, se in Italia ci si concentra su gli extra-comunitari nel Regno Unito l’attenzione e la paura sono rivolte invece verso chi arriva da dentro l’UE nonostante Londra sia stata tra i maggiori sponsor dell’allargamento a est in funzione anti Russia. Sul piano economico l’economia britannica ha beneficiato dell’allargamento e anche la ripresa dalla crisi del 2008 è molto forte, ma il Brexit prova come l’idea che l’immigrazione sia economicamente utile non funziona. I partiti populisti non prosperano solo nei periodi di crisi ma anche in quelli di vacche grasse. Basta guardare la Findalia felix o l’Austria che in barba all’opulenza nazionale potrebbe eleggere un presidente di estremissima destra. Da almeno due decenni le destre radicali crescono anche dove non si sta affatto male. E allora? Allora è utile guardare al parallelo degli Usa, dove chi oggi sostiene Trump, così come i pro Brexit, viene anche da quella classe media bianca che ritiene di essere stata privata dalla globalizzazione di identità e ciance. Al referendum gli inglesi non hanno risposto se fossero o meno contenti dell’Europa ma se i propri politici avessero o meno fatto i loro interessi (e hanno risposto di no)».

Se parliamo di crisi d’identità più che di finanze domestiche, argomento su cui sono d’accordo anche altri esperti di “politica e linguaggio dell’odio” come Arthur Goldwag, autore di una specie di Bibbia della materia (The New Hate: A History of Fear and Loathing on the Populist Right ), bisogna di nuovo ricorrere alle statistiche. Tra gli studi più documentati ci sono quelli del Center for problem-oriented politicing che citando il National Crime Victimization Survey disegna questo quadro. Dall’inizio degli 2000 gli hate crimes (i crimini motiva dall’odio) sono diminuiti in generale ma sono aumentati molto tra i giovani (circa 169 mila vittime l’anno), il 90% sono motivati da scontri razziali o etnici, sono più violenti dei non hate crimes (oltre l’85% sono violenti e solo il 13% riguarda reati tipo furti, l’opposto dei non hate crimes), il 54% delle vittime non denuncia l’aggressione alla polizia, nel 58% dei casi la tensione è legata alla razza.

«Nella storia dell’uomo c’è sempre stata un componente minoritaria della popolazione di orientamento di estrema destra pronta ad attivare l’odio identitario, c’è stata nel XVIII secolo, nel XIX, nel XX ci siamo distratti con la guerra fredda ma il razzismo è sempre stato lì, appostato in qualche angolo – ragiona Arthur Goldwag -. Poi è arrivata la crisi economica e più ancora che ridurre alla fame la classe media ha mostrato come la globalizzazione fosse stata molto buona per i molto ricchi e chi non lo era si è sentito ingannato e ha reagito con rabbia crescente. La paura e l’odio sono il termometro di una crisi che è quella del capitalismo, una crisi identitaria oltre che economica in cui le classi non ritrovano più il loro posto, il lavoro fatto non corrisponde alla rendita che produce, il nazionalismo non funziona più a difendere gli interessi del popolo che gli corrisponde, le diseguaglianze culturali sono aumentate rendendo tutto molto più confuso perché oggi il livellamento è transazionale e ad essere più tolleranti sono i più colti, benestanti e cosmopoliti». Da questo punto di vista anche i due mandati del primo presidente nero d’America possono aver nuociuto a chi, nella middle class bianca, i leggendari wasp, si sente sotto assedio, minoranza in casa propria.

Mala tempora, concordano gli studiosi. Goldwag nota che “storicamente le rivoluzioni non esplodono quando le cose vanno molto male, esplodono quando vanno abbastanza bene in generale ma una parte della popolazione va male”. Gli arrabbiati di oggi, continua, «sbagliano ma hanno ragione su un punto, le cose non torneranno più indietro e il futuro dei loro figli sarà certamente diverso in peggio da quanto hanno vissuto loro. E questa sensazione di sconfitta è moltiplicata dalla comunicazione sul web, è la stessa vissuta dagli uomini dei secoli passati ma circola di più, così come oggi via internet i Protocolli dei Savi di Sion sono più diffusi di quando furono scritti e smascherati come falso».

E c’è la Rete, croce e delizia del villaggio globale. «Internet fa da cassa di risonanza – spiega Albertazzi -. Twitter ormai influenza la vita politica più della realtà. I social sono media anarchici, senza controllo, quando Beppe Grillo non rilasciava interviste tutte le prime pagine dei giornali erano su cosa scriveva il suo blog e in questo modo Grillo influenzava l’agenda delle notizie. E’ la stessa cosa del video su Facebook in cui la ragazza nera filma il poliziotto che spara al suo compagno, l’effetto è immediato, incommensurabile con quando in passato si distribuivano volantini. Il messaggio magari è lo stesso ma viaggia alla velocità della luce, dietro al razzismo c’è il disagio di chi non ha più neppure l’illusione di controllare il suo futuro e reagisce con rabbia contro le elite anche quando le elite non sono responsabili di tutto. Obama, per esempio, al netto dei suoi errori, non è imputabile della perdita di potere globale degli Stati Uniti in un mondo multipolare. In questo senso l’odio a cui assistiamo è legato all’identità: quello del passato era legato allo schiavismo e a un’idea folle di superiorità, l’odio di oggi è legato all’autodifesa di chi si sente diventato una minoranza in casa sua, al disagio dei bianchi nei quartieri molto etnicizzati che danno la sensazione di un’invasione di stranieri anche se numericamente invasione non è, alla voglia di vendetta contro le elite politiche che per farsi eleggere promettono quanto in un mondo globalizzato non possono mantenere, è un odio che monta dalla pancia e colpevolmente i populisti di ogni latitudine cavalcano per essere rilanciati dai media». E poi a un certo punto tutti i nodi vengono al pettine.

(fonte: La Stampa)