La trasformazione di eventi di soccorso nel Mediterraneo in “operazioni di polizia” da parte delle autorità italiane, prassi in atto dal 2019, mostra i suoi effetti più letali. E Frontex aveva già rilevato con le termocamere la presenza di centinaia di persone sulla nave poi naufragata il 26 febbraio. Che cosa non torna nelle ricostruzioni ufficiali
Lo strumentale e ingiustificato cambio di classificazione e gestione degli eventi di ricerca e soccorso nel Mediterraneo in “operazioni di polizia” da parte delle autorità italiane, prassi in atto dal 2019, come abbiamo raccontato fin dall’inizio su Altreconomia, mostra con la strage di Cutro del 26 febbraio 2023 i suoi effetti più letali.
Ed è patetico lo scaricabarile in atto in queste ore tra Guardia costiera, Guardia di Finanza, ministero dell’Interno e Agenzia Frontex dopo il naufragio. Sergio Scandura, giornalista di Radio Radicale e faro nella notte del Mediterraneo grazie al suo meticoloso lavoro di monitoraggio e inchiesta su fonti aperte, usa un’immagine efficace per descrivere la pantomima: cioè la scena del film “Le iene” di Quentin Tarantino del 1992, con i sopravvissuti della storia a puntarsi le pistole l’uno contro l’altro.
Qui però ci sono morti veri, 66 quelli dichiarati alla sera del 28 febbraio, dopo il ritrovamento del corpo di un bambino di nemmeno 10 anni. Secondo la prefettura di Crotone sarebbero 28 le salme identificate: 25 cittadini afghani, un cittadino pachistano, un palestinese e un siriano. I salvati arrivano da Afghanistan, Pakistan, Palestina, Siria, Iran, Somalia. Inclusi 14 minori, alcuni dei quali ancora ricoverati a Crotone, altri finiti al Cara di Isola di Capo Rizzuto.
“Credo che al primo avvistamento abbia seguito un modo di procedere dell’imbarcazione che non ha segnalato il distress e quindi poi si è arenata in una secca all’arrivo: non ha chiesto aiuto da quelle che sono le prime ricostruzioni”, ha detto il 28 febbraio il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, su Rai1, ospite di Bruno Vespa, dopo aver incolpato i morti per esser partiti con il brutto tempo e non aver fatto come John Fitzgerald Kennedy (“Non chiedete cosa può fare il vostro Paese per voi, chiedete cosa potete fare voi per il vostro Paese”).
Il primo avvistamento della barca partita il 22 febbraio da Smirne, in Turchia, sarebbe stato in teoria quello dell’Agenzia Frontex, nella tarda serata del 25 febbraio, poche ore prima del naufragio e della strage. L’aereo di pattugliamento Eagle1 dell’Agenzia impiegato nell’ambito dell’operazione Themis avrebbe infatti avvistato l’imbarcazione a 40 miglia dalle coste crotonesi. Scandura ha pubblicato su Twitter la traiettoria disegnata dal velivolo.
“L’unità risultava navigare regolarmente, a sei nodi e in buone condizioni di galleggiabilità, con solo una persona visibile sulla coperta della nave”, sostiene la Guardia costiera in un comunicato diramato nel pomeriggio del 28 febbraio e che avrebbe dovuto far chiarezza. In realtà fa acqua da tutte le parti e omette un “particolare” che poche ore dopo la stessa Frontex ci ha tenuto a precisare (a proposito di scaricabarile).
Su quella nave le persone a bordo erano almeno 200 e attraverso le sue “telecamere termiche” installate a bordo, il velivolo di pattugliamento dell’Agenzia europea aveva anche rilevato “una risposta termica significativa dai portelli aperti a prua e altri segni che indicavano la presenza di persone sotto il ponte”, ha risposto Frontex ad Altreconomia. Nonostante questa circostanza (altro che una persona visibile), che pure a quanto riferisce Frontex avrebbe “insospettito” i suoi “esperti”, l’Agenzia stessa si è ben guardata dall’emettere un mayday per avvisare tutte le imbarcazioni vicine del possibile pericolo, cosa che avrebbe potuto fare in base al diritto internazionale. Trincerandosi dietro alla tesi per la quale “l’imbarcazione navigava da sola e non c’erano segni di pericolo”, Frontex si è dunque limitata a “informare immediatamente dell’avvistamento il Centro di coordinamento internazionale dell’operazione Themis e le altre autorità italiane competenti, fornendo la posizione dell’imbarcazione, la rotta e la velocità”. E “per conoscenza” anche la centrale operativa della Guardia costiera di Roma. “Il nostro aereo ha continuato a monitorare l’area fino a quando è dovuto rientrare alla base per mancanza di carburante”, ha aggiunto Frontex.
In quel momento però è successo qualcosa che si gioca a far finta di non cogliere. La Guardia costiera scrive che “a seguito di tale segnalazione, la Guardia di Finanza comunicava l’avvenuta attivazione del proprio dispositivo, già operante in mare, per intercettare l’imbarcazione”. Da chi è arrivato l’input, anche se non lo si vuole dire, pare palese, e cioè da quello che sempre la Guardia costiera chiama il “punto di contatto nazionale preposto per l’attività di law enforcement“. Si tratterebbe del Centro nazionale di coordinamento (Ncc) – Sala Eurosur, insediato presso il ministero dell’Interno, punto nevralgico della strategia che negli anni ha beneficiato tra le altre cose di ingenti finanziamenti europei per il suo ammodernamento tecnologico (Fondo sicurezza interna).
L’operazione viene classificata perciò come “operazione di polizia” e non come evento Sar ed è attivato il dispositivo che porta due mezzi navali della Guardia di Finanza a tentare, per riprendere il primo comunicato stampa del Reparto operativo aeronavale di Vibo Valentia delle 11 di mattina circa del 26 febbraio, “l’intercetto dell’imbarcazione”. Si tratta della vedetta V.5006 e del pattugliatore veloce PV6 Barbarisi. Le due imbarcazioni tentano di “raggiungere il target“, che all’ora non ci si vergognava di associare al “traffico di migranti”, ma le condizioni del mare “proibitive” le avrebbero costrette a far “rientro agli ormeggi di base”.
In poche ore dunque si passa dalle “buone condizioni di galleggiabilità” riferite dalla Guardia costiera e dal “non c’erano segni di pericolo” di Frontex al mare grosso. “Mare forza 4, con onde alte fino a 2,5 metri”, ci ha scritto Frontex indignata contro quei “trafficanti di persone senza scrupoli che hanno stipato le persone a bordo in condizioni meteorologiche avverse”. Condizioni meteo che mutano a seconda degli attori coinvolti. Ipocrisia forza 4.
Il resto è tristemente noto. La Guardia costiera, fino ad allora fuori dall’operazione coordinata dall’Ncc del Viminale, avrebbe ricevuto solo alle 4.30 circa del 26 febbraio “alcune segnalazioni telefoniche da parte di soggetti presenti a terra relative ad un’imbarcazione in pericolo a pochi metri dalla costa”. “I carabinieri, precedentemente allertati dalla Guardia di Finanza, giunti in zona, riportavano alla Guardia costiera l’avvenuto naufragio”. A cose fatte.
Sarebbe stata questa secondo la Guardia costiera “la prima informazione di emergenza pervenuta riguardante l’imbarcazione avvistata dal velivolo Frontex”. Solo dopo queste “segnalazioni ricevute” sarebbe stato allora immediatamente attivato il “dispositivo Sar, sotto il coordinamento della Guardia costiera di Reggio Calabria, con l’invio di mezzi navali e aerei, uomini e mezzi terrestri, nella zona indicata”.
Ed è qui che la Guardia costiera si ingarbuglia fino a tradirsi. Perché quella dei carabinieri a persone ormai in mare non può essere considerata la “prima informazione di emergenza”. Perché fin dalla notte del 25 febbraio la Guardia costiera sapeva, informata per conoscenza da Frontex, che su quella nave c’erano almeno 200 persone stipate su un mezzo inadatto a trasportarle in sicurezza, diretta peraltro nella bocca di condizioni meteomarine “proibitive”, “particolarmente avverse” per citare il comunicato dello stesso Comando generale del Corpo delle Capitanerie di Porto del 26 febbraio (ore 11.41). È un tradimento perché “Ogni imbarcazione sovraffollata è un caso Sar (Ricerca e soccorso) di per sé e una possibile situazione di pericolo anche in assenza di un segnale di pericolo in base al principio di precauzione”. Sono parole della stessa Guardia costiera del 2017. Naufragate.
Mentre resta ambiguo l’epilogo del “dispaccio generico di allerta distress, senza coordinate”, diramato alle navi transitanti in area Mare Ionio via “InmarSAT C” dal Centro di coordinamento di ricerca e soccorso di Roma nella prima mattinata del 25 febbraio, 24 ore prima della strage, recuperato e pubblicato ancora da Scandura. Al 28 febbraio non risultano sbarchi legati a eventi provenienti dal Mar Ionio.
Fonte: Altreconomia