Nella narrazione che accompagna le migrazioni emerge sempre più spesso, ma non viene riconosciuto e tanto meno messo in discussione, uno dei diversi volti del razzismo istituzionale. Il rapporto annuale Centri d’Italia, il vuoto dell’accoglienza di ActionAid e Open Polis, ad esempio, racconta di ostruzioni nell’accesso ai dati, di posti liberi per l’accoglienza in diversi comuni di cui non si parla, di ostacoli mai risolti per favorire il sistema di accoglienza diffusa e, al tempo stesso, di dichiarazioni politiche in cui rimbalzano in modo ossessivo espressioni come “sistema al collasso”, “perenne emergenza”, “invasioni” o, in riferimento alla Sicilia, “campo profughi d’Europa”…
Esiste un’emergenza immigrazione? Nonostante si continui a parlare di invasione e centri di accoglienza al collasso, il report annuale di ActionAid e Open Polis, descrive un altro scenario. Pubblicato sulla piattaforma interattiva Centri D’Italia (da cui è possibile scaricare anche dati di dettaglio sul sistema di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati in Italia territorio per territorio e conoscere ad esempio i tipi di centri, i posti disponibili, le presenze, i gestori e i prezzi giornalieri) Centri d’Italia, il vuoto dell’accoglienza evidenzia innanzitutto che non c’è nessuna “invasione”. Dal 31 dicembre 2021 i richiedenti asilo e rifugiati ospitati nei centri rappresentavano lo 0,13% della popolazione italiana. Dal 1 gennaio al 31 dicembre 2022 sono sbarcate sulle coste italiane 105mila persone. Nonostante in aumento di circa 37mila unità rispetto al 2021 i numeri sono molto lontani dagli sbarchi degli anni di maggior affluenza, tra il 2014 e il 2017. Ad esempio, nel 2016 si registravano quasi 80mila persone sbarcate in più rispetto al 2022. I dati sono solo degli sbarchi via mare, perché – malgrado le richieste delle organizzazioni non governative e della società civile – è assente un monitoraggio pubblico per gli ingressi via terra, come quelli attraverso la cosiddetta rotta balcanica, peraltro interessata da respingimenti illegali, o quelli presso i porti adriatici, anch’essi luoghi spesso di trattamenti inumani e prassi illegittime.
Il sistema dunque è “tutt’altro che al collasso” e lo dimostrano anche i dati che, sempre al 31 dicembre 2021, riportano ben 20mila posti liberi in Italia. Nell’anno in corso, meno di un comune su quattro (il 23,2%) in Italia è interessato dall’insediamento di un centro di accoglienza (di qualsiasi tipo). In numeri assoluti parliamo di 1.834 territori comunali sui 7.904 totali. Nel 2018 erano 3.391, pari al 42,9% del totale. Nell’arco di tre anni, dal 2018 al 2021, sono stati chiusi perciò 3.576 centri, con un calo del 29,1%. La motivazione risiede innanzitutto nella forte contrazione degli arrivi, che ha di conseguenza portato alla riduzione del numero di posti nel sistema: nel 2021 venivano messi a disposizione 59.466 posti nei Cas (Centri di accoglienza straordinaria), il 60,88% del totale dei posti a disposizione dell’intero sistema (97.670). Un calo rilevante riguarda anche il Sai (Sistema accoglienza e integrazione): nel 2021 erano disponibili oltre mille posti in meno rispetto al 2018 nonostante per i richiedenti asilo l’accoglienza resti un diritto sancito dalla Costituzione e da una direttiva europea.
Un’occasione mancata?
Nel 2022 si è celebrato il ventennale della nascita del sistema pubblico di accoglienza, inizialmente noto come Sprar, divenuto poi Siproimi e oggi Sai. Si tratta di un modello innovativo di microaccoglienza diffusa ed integrata, caratterizzato tuttavia da alcuni nodi che, nonostante siano trascorsi vent’anni, non sono stati ancora affrontati. Ricordiamo che il sistema dell’accoglienza in Italia è strutturato in due livelli: prima accoglienza (Cpa/ hotspot) e seconda accoglienza (Sai). Tuttavia la maggior parte dei richiedenti asilo viene accolta in forma di accoglienza straordinaria (Cas) che dimostra come un fenomeno ormai ordinario venga gestito principalmente in forma emergenziale.
Non è chiaro inoltre come avvenga la scelta di ospitare un richiedente asilo o un altro all’interno di un Sai o di un Cas, quando la legge prevede comunque il riferirsi al circuito emergenziale solo in assenza di posti disponibili in quello ordinario. Dai dati riportati si evince che i richiedenti asilo accolti nel Sai rappresentano solo il 25,7% del totale (42.464 persone) e circa il 69% accolte in questo circuito è arrivato via mare. Inoltre, dall’analisi dei posti “persi”, più di un terzo (il 36,4%) è in centri di piccole dimensioni. Nel 2018 i posti nei centri piccoli rappresentavano il 39,5% del totale. Segno, insomma, di un mancato investimento nell’accoglienza diffusa (reso evidente dal “nuovo” capitolato di gara che non segna una discontinuità netta con quello collegato al decreto sicurezza) e della scelta deliberata di continuare a mantenere grandi concentrazioni di persone. Usciti dal triennio di consistenti arrivi – 2014/2017 – e con la diminuzione delle persone accolte nei centri, si sarebbe potuto cercare di mantenere un numero maggiore di comuni interessati dall’accoglienza e garantire così un servizio di qualità e inclusivo. Al contrario invece i dati confermano che i centri straordinari di piccole dimensioni non sono stati assorbiti dal sistema Sai, come sarebbe stato logico fare e dal 2018 al 2021 i comuni all’interno dei quali sorgeva almeno un progetto Sai sono persino diminuiti, passando da 690 a 669. In 208 di questi c’è inoltre almeno un altro centro a gestione prefettizia (Cas o prima accoglienza).
Esiste la mano invisibile dell’accoglienza?
In un’intervista a Michele Rossi, presidente di Europasilo, pubblicata nel rapporto si legge:
«Sin dal suo insediamento, il ministro dell’interno Matteo Piantedosi ha parlato, nell’informativa alle camere e nelle sue dichiarazioni, di un “sistema di accoglienza senza regole”, “in forte difficoltà”, “al collasso”. La nostra analisi sui centri di accoglienza conferma invece la tendenza di lasciare storicamente una riserva nei posti liberi nel sistema (sia Cas che Sai). Come interpreta questa apparente contraddizione e questa riserva di posti liberi? Interpreto quelle parole solo come un’apparente contraddizione, ma è una politica di deterrenza all’accesso all’accoglienza. Che si basa anche su una progressiva e forte restrizione e limitazione dell’accesso al diritto alla protezione stessa. Il tema dei posti liberi non è ascritto a una sorta di mano invisibile o di casualità. Sono nella disponibilità delle prefetture, ma non sempre vengono utilizzate in una logica di diritto. Questa arbitrarietà fa parte di una serie di ostacoli che vengono frapposti tra il richiedente asilo che cerca protezione e accoglienza, e l’esigibilità effettiva di questo diritto. Gli ostacoli, che ci sono sia nelle questure che nelle prefetture, portano molte persone a vivere all’addiaccio, o il crearsi di file che abbiamo visto recentemente di fronte le questure in diverse città. Voler rendere difficoltosa l’accoglienza è una forma di deterrenza».
Il lavoro di ricerca svolto da ActionAid e Openpolis è stato dunque di analisi statistica ma soprattutto di reperimento dei dati. Un lavoro lungo e reso complesso dall’atteggiamento delle istituzioni, Viminale in primis. Dopo silenzi, richieste di riesame e di integrazione delle domande, nel dicembre del 2020 è arrivato da parte del ministero il primo rigetto della loro istanza di richiesta dati, motivato dall’esigenza di garantire i “diritti di riservatezza” per i centri e i gestori oggetto delle ispezioni. Dopo un ricorso al Tar (anch’esso rigettato) e successivamente al Consiglio di Stato, il 3 marzo 2022, a quasi due anni dalla prima richiesta, il Consiglio di Stato finalmente ha dato loro ragione, ordinando al ministero il rilascio dei dati sulle ispezioni dei centri di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati per l’anno 2019. Nonostante ciò, la richiesta relativa ai dati degli anni 2020 e 2021 è stata nuovamente negata. L’analisi dell’accoglienza in Italia è perciò caratterizzata dall’assenza di trasparenza nelle informazioni ed evidenzia come la percezione mainstream sia per lo più propagandistica e molto lontana dalla realtà raccontata nel report.
Il campo profughi d’Europa
Spiegano i responsabili del rapporto:
«La lettura di un sistema in perenne emergenza viene presentata continuamente in ogni occasione utile. Eppure, la realtà dei dati ci parla di migliaia di posti liberi nei centri – tra un quarto ed un quinto del totale, a seconda del periodo dell’anno – e di un sistema tutt’altro che al collasso. Ma a fronte delle migliaia di posti liberi rilevati a livello nazionale e nelle regioni di frontiera (presentati nel primo capitolo), che smentiscono i proclami del ministro dell’interno sulla Sicilia, ben lungi da essere il “campo profughi d’Europa”, viene da chiedersi se l’affollamento innegabile delle strutture di confine, come l’hotspot di Lampedusa, sia frutto semplicemente dell’inerzia dell’amministrazione. Di certo, l’effetto ottico dei numeri degli arrivi su una piccolissima isola, consente di alimentare la leggenda dell’invasione. A tal proposito saltano agli occhi i dati sulle ispezioni nei centri che abbiamo presentato per la prima volta in questo rapporto: nel 2019 nella prefettura di Agrigento, una tra le più interessate dalla prima accoglienza, non ci sono stati controlli nei centri».
I dati sulle ispezioni di controllo nei centri, riferiti ovviamente al solo 2019, non chiariscono infatti i criteri con cui sono state svolte: su 5.482 centri prefettizi (Cas e Cpa) attivi al 31 dicembre 2019, solo 2.223 sono stati quelli ispezionati dalle prefetture pari al 40,5% del totale e più di 70 centri sono stati ispezionati più di 4 volte nel corso dell’anno. In questa categoria sono inclusi i centri ispezionati anche numerose volte nell’arco dei 12 mesi, come il centro governativo di Crotone, in Calabria, che ha ricevuto ben 36 ispezioni nel solo 2019. Nonostante questo scenario, ben diverso dalla narrazione dell’invasione incontrollata, il primo punto del programma elettorale della coalizione di centrodestra, nel capitolo dedicato alla “sicurezza e al contrasto all’immigrazione illegale”, è il ritorno ai decreti sicurezza. Questa intenzione emerge già a partire dal decreto legge 1/2023, il cosiddetto “decreto Ong” recentemente criticato anche dal Consiglio di Europa e dalle Nazioni Unite: «È un modo sbagliato di affrontare le questioni umanitarie. Si rischia di far morire più persone in mare», ha detto l’Alto Commissario Volker Turk. Il decreto, approvato dalla Camera e tra poco in discussione al Senato ha solo la funzione di «punire sia i migranti sia coloro che cercano di salvarli. Questa penalizzazione delle azioni umanitarie trattiene le organizzazioni dei diritti umani dal fare il proprio lavoro».
Fonte: Benvenuti Ovunque