Musa Balde aveva 23 anni e veniva dalla Guinea.
Il 9 maggio era stato aggredito da tre uomini per strada senza motivo. Era stato picchiato con dei bastoni, calci e pugni a Ventimiglia e, fermato, era stato portato nel centro di permanenza per il rimpatrio di Torino, in Corso Brunelleschi.
Sabato scorso si è impiccato con alcune lenzuola che aveva nella sua camera, che probabilmente è più corretto definire cella.
I tre italiani sono stati identificati dalla polizia di Imperia e denunciati per lesioni. Per Balde invece, si sono aperte le porte del Cpr. Non aveva i documenti e quindi, come clandestino, andava rinchiuso in attesa di essere rimpatriato.
Nei CPR si muore e questa tragedia è una sconfitta per tutti noi.
Ma cosa sono i CPR?
Gli attuali Centri per il rimpatrio (CPR) sono strutture detentive create nel 1998 con la denominazione di Centri permanenza temporanea (CPT) e operanti tra 2008 e 2017 con la denominazione di Centri di identificazione ed espulsione (CIE). La funzione di tali strutture è quella di “trattenere” gli stranieri destinati all’espulsione (o al respingimento) in attesa dell’esecuzione di tale provvedimento. All’interno dei CPR lo straniero subisce dunque una privazione della libertà personale senza aver violato la legge penale, per ragioni direttamente connesse con l’amministrazione delle politiche migratorie. La disciplina normativa di tali strutture è stata rimaneggiata numerose volte a partire dal 2002, fino alle ultime modifiche introdotte dalla Legge n. 46/2017 di conversione del Decreto legge n. 13/2017, che tra le altre cose ha introdotto l’attuale denominazione.
Alla luce delle più recenti riforme, i CPR sono strutture detentive in cui l’immigrato irregolare in attesa di espulsione può essere trattenuto fino a un massimo di 90 giorni (120 giorni se lo straniero è già stato detenuto in carcere prima di fare ingresso in un CPR), periodo prorogabile di ulteriori 15 giorni nei casi di particolare complessità. Tale termine può raggiungere un massimo di 12 mesi nel caso in cui uno straniero già trattenuto perché destinatario di un provvedimento di espulsione o respingimento inoltri una domanda di protezione internazionale.
Sebbene sia dal 2011 prevista la possibilità di adottare misure di controllo alternative, come l’obbligo di consegna dei documenti, l’obbligo di firma o l’obbligo di dimora, i requisiti di affidabilità sociale che lo straniero deve possedere per poter accedere ad una delle misure non detentive sono tali e tanti (possesso di documenti, di adeguate fonti di reddito, di un domicilio o una dimora fissa, non essere considerato socialmente pericoloso, ecc.) che la detenzione finisce per essere ancora la misura più ricorrente.
I CPR hanno chiaramente assunto i tratti di centri chiusi sin dalla loro istituzione, tanto che sin dal 1998 la legge Turco-Napolitano ed il suo regolamento attuativo, pur affermando che «il trattenimento deve avvenire nel rispetto della dignità dello straniero» e che a quest’ultimo è comunque assicurata «la garanzia dei contatti, anche telefonici, con l’esterno», stabilivano l’assoluto divieto di allontanarsi da tali centri ed affidavano alla polizia la responsabilità in materia di sorveglianza e sicurezza interna. La discrezionalità concessa all’autorità di pubblica sicurezza nella gestione dei CPR è stata in parte limitata dall’approvazione di una serie di norme regolamentari e di direttive ministeriali che hanno precisato il regime detentivo e gli standard gestionali di tali strutture.
Negli ultimi cinque anni la rete di centri di detenzione per stranieri in via di espulsione è andata costantemente contraendosi, passando dagli oltre 1900 posti disponibili in 13 strutture detentive sparse su tutto il territorio nazionale, alcune delle quali (Roma, Torino, Bari, Gradisca d’Isonzo) ospitavano più di 200 “trattenuti” contemporaneamente, ai meno di 400 posti disponibili alla fine del 2016, concentrati in sole 4 strutture detentive (Torino, Roma, Brindisi, Caltanissetta). A ciò ha fatto da contraltare una progressiva decrescita nel numero degli ingressi e delle espulsioni effettivamente eseguite a partire dagli ex CIE, che da anni si attestano attorno alla metà del totale degli ingressi.
Tale contrazione è stata forse il frutto di un parziale disinvestimento politico nella detenzione amministrativa degli stranieri, se è vero che un documento programmatico pubblicato dal Ministero dell’Interno nel 2013 denunziava le sue inefficienze, sottolineando anche i costi e le difficoltà di gestione di un sistema detentivo in cui danneggiamenti, rivolte e violenze erano all’ordine del giorno. L’attuale Governo sembra deciso tuttavia ad invertire la rotta e con l’art. 19 del Decreto legge n. 13/2017 ha lanciato un programma di espansione della rete dei centri di detenzione per stranieri, che dovrà assicurare la distribuzione delle strutture su tutto il territorio nazionale.