Laggiù si muore di colera, dengue, listerosi. In Madagascar è tornata la peste. Anche il panico è diventato un lusso.
E se la Paura, questo immateriale potere, fosse in fondo un lusso, un lusso che solo noi, nel mondo della sicurezza, di favole pulite, terse, confidenti, amabili, possiamo permetterci? Insomma: nel contempo è maledizione e privilegio, che si insinua nelle pause in cui le nostre certezze, salute, Pil, frontiere aperte, per una improvvisa, insidiosa affezione respiratoria di massa, sembrano sfilarsi tra le dita. Affondano in dubbi, sconforti, afflizioni, lacrime, clamore di voci dispari. Così la Paura si fa universalmente visibile in giornate lombardo-venete di gente in quarantena e intristita, una nebbia sporca attorno alla vita quotidiana. Come per gli attentati: che ci portano a domicilio la guerra che noi non conosciamo, e soprattutto non vogliamo vedere.
Abituati a specchiarci in un avvenire radioso, dove la Morte è sgradevole argomento di conversazione, da evitare nel ‘’bon ton’’, e sulla sofferenza non indugiamo mai, ci sembra che il mondo si sia addirittura capovolto: per un virus. Ma appena la pressione atmosferica della modernità e della sicurezza scompare, in Africa per esempio, tutto diventa tragicamente più semplice. Il panico si fa appunto lusso, come gli ospedali asettici e attrezzati, i virologi, i vaccini che prima o poi si troveranno, le ambulanze, le quarantene precauzionali, il turismo, i supermercati da svuotare. Che loro non hanno. Se la sgrondano di dosso, gli uomini che vivono lì, perché non possono permettersela, la Paura. La sicurezza di sopravvivere, restar sani, non morire di fame o di kalashnikov e machete, nell’usura di quelle esistenze, nel mondo che percorro io, non è in dotazione. La Peste è permanente, come la vita, e la morte.
Dopo una settimana di “peste’’ nostrana, le frasi si confondono, i discorsi di politici, epidemiologi, catastrofisti tenaci e immarcescibili “candide’’ sono ormai caricati a carta, esaurite anche le facezie sfiancate sulla amuchina, il lavarsi le mani e le mascherine; stenta anche la ricerca delle coincidenze, a costo di qualche sbandamento filologico, con i morbi ben scritti di Manzoni Tucidide Defoe Boccaccio e perfino la metafisica peste di Camus, una sorta di grottesco antidoto da letteratura.
Allora è il momento di un viaggio concepito come esame di coscienza, nell’altro mondo che ci sta intorno. Solo così ci libereremo dalla Paura: che è fatta del guardate solo me, non distogliete lo sguardo, proibito evocare altre vittime.
Per esempio: ho attraversato da poco il Sahel, dove quattro milioni di uomini, donne e bambini sono esposti alla denutrizione e alla immediata possibilità della carestia. Dietro c’è un micidiale impasto di insicurezza causata dalle guerre etniche e del fanatismo islamista che nelle zone rurali costringe contadini e allevatori a farsi profughi, abbandonando bestiame e campi; a cui si aggiunge la desertificazione.
La fame, la più primitiva delle angosce, endemica, ricorrente a vampate, nei luoghi del mondo in cui la geografia simboleggia il travaglio della vita. Guardo negli occhi le file degli affamati che si allungano nei luoghi dove sperano di trovare cibo. Non c’è paura ma quel tanto di indomito fatalismo che entra nel sangue dei popoli abituati a strappare davvero la vita al nulla.
Allora capisco quello che mi scrive un amico che vive in Niger replicando alla mia dettagliata descrizione del virus, delle vittime anziane, delle attività economiche impacciate: «Beati voi che avete solo il problema del coronavirus, qui non riusciamo nemmeno a contarli, i problemi…».
Già: continenti interi dove la vita è appesa a fili insignificanti, un abisso quotidiano in cui si può precipitare senza avere l’impressione di ferirsi, un abisso madre, un precipizio di ombra antico come l’uomo e appunto la peste, un imbuto infinito in cui, se ci vivi, ti infili ogni giorno come per un viaggio qualsiasi.
Il mondo delle maledizioni bibliche, fame guerre epidemie, dove un ospedale, quando c’è, ha un bacino di utenza di 350 mila persone; dove puoi vedere statistiche di bambini che muoiono di morbillo (nel terzo millennio!) o per il morso di un cane rognoso che come lui rovistava tra i rifiuti (non c’è l’antidoto contro la rabbia). Dove non usa che gli uomini piangano. E nessuno può aver paura. Un virus in più non fa crescere certo il loro affanno di tagliati fuori.
Guardare gli invisibili
Forse ci aiuterà, ad affrontare i nostri guai epidemici e avere meno paura, consultare le cifre della Sanità in Africa, che, purtroppo, non è quella dei villaggi vacanza e degli economisti che si fregano le mani per le cifre della Crescita del continente. Ma non si accorgono che la ricchezza aumenta, sì, ma va nelle mani di una quarantina di manigoldi, i presidenti, con cui facciamo affari.
Si scopre che migliaia di persone muoiono ogni anno di colera, dengue, listeriosi, febbre di lassa. Che in Madagascar c’è stata una micidiale epidemia di peste, quella vera, davvero manzoniana. E c’è ebola: ricordate ebola nel 2014, la fiammata brutale di febbre che in Africa occidentale causò la morte ventimila persone? In Congo l’epidemia non è mai finita, sonnecchia, guizza, uccide. Dalla Nigeria al Sudan, dallo Zambia al Centrafrica, il timore di infettarsi, di morire, non è che un immenso fatale disturbo. La paura è una faccenda tra noi e noi; gli altri, quelli del terzo mondo, non compaiono nella fotografia. Forse guardarli ci aiuterà ad avere più coraggio.
Domenico Quirico