Mediterraneo. A Nador, accanto all’enclave spagnola di Melilla, Boubacar ha ottenuto il permesso di soggiorno. Da allora sensibilizza, insieme ad Alarm Phone, i subsahariani pronti a prendere il mare. E nei commissariati identifica i corpi di chi non ce l’ha fatta.

Trentun’anni e un master in diritto commerciale, Boubacar è l’unico dei 260 migranti che nel 2017 hanno fatto domanda ad aver ottenuto il permesso di soggiorno nella cittadina frontaliera con l’enclave di Melilla, luogo di transito per i circa 3mila migranti che trovano rifugio negli accampamenti che sorgono alle pendici del monte Gourougou, in attesa di tentare il passaggio in Europa, via mare o via terra.

Scappato dalla Guinea Conarky per motivi politici, è arrivato in Marocco nel 2013. «Non è stata una scelta ma un caso: dovevo andar via e al momento della ricerca il volo per Casablanca era quello meno caro». Dalla metropoli è subito fuggito, per cercare riparo in una cittadina dove poter ricominciare la sua vita.

È arrivato a Nador ancora una volta per caso, trovando una città che politiche repressive e militarizzazione della frontiera hanno reso negli anni un’eccezione nel paese magrebino, facendola diventare il luogo in cui vengono eseguiti il maggior numero di arresti e deportazioni forzate verso il sud del paese.

Ciò l’ha trasformata in una città inaccessibile ai migranti, che trovano rifugio nei boschi che la circondano. Lì Boubacar ha passato sei mesi, durante i quali è riuscito a lavorare presso i contadini dei campi limitrofi agli accampamenti. «Ci davano 50 dirham al giorno (poco meno di cinque euro) e ci permettevano di usare la loro acqua e ricaricare i cellulari».

Con l’arrivo dell’inverno ha capito che, non essendo intenzionato a provare a raggiungere l’Europa, non poteva continuare a vivere in quelle condizioni precarie. Ha deciso di scendere in città, dove attirato dall’offerta di una scuola di lingue ha usato i suoi risparmi per frequentarne le lezioni. «Avevo delle basi di tedesco e volevo continuarlo. Mi sono informato e dopo aver pagato i primi due mesi mi è stato offerto di continuare dando in cambio lezioni di francese. Grazie a loro ho iniziato anche a fare delle lezioni private a domicilio, che mi ha permesso di regolarizzare la mia situazione amministrativa e riuscire a permettermi un affitto».

Integrarsi a Nador non è stato facile. «La gente mi vedeva per strada e mi faceva le foto con il cellulare. Ero il solo subsahariano che camminava quotidianamente per le strade di Nador. Piano piano però, grazie al fatto che mi vedevano sempre nel quartiere e frequentare la scuola, le cose sono migliorate».

Il suo percorso d’integrazione è stato facilitato anche dalle attività di volontariato che ha svolto durante gli anni. Dal 2014 Boubacar effettua per Alarm Phone campagne di sensibilizzazione nella foresta in cui sorgono gli accampamenti, informando le persone che intendono partire sui loro diritti ma soprattutto sui rischi e le misure di sicurezza da adottare.

«Quello che durante le sensibilizzazioni ripetiamo in continuazione sono due punti fondamentali: non far partire le barche con il brutto tempo, perché ne va della vita di esseri umani, e l’importanza di avere dei telefoni a bordo da usare in caso di pericolo».

Parla con cognizione di causa Boubacar, che ai cadaveri dei migranti – in quanto mediatore culturale – è spesso chiamato dalla Gendarmerie Royale per dare un nome. «Il lavoro di riconoscimento lo faccio prevalentemente per due ragioni: cerco di aiutare la città ma soprattutto per provare a colmare quel vuoto che lascia il ritrovamento di un cadavere, soprattutto se senza documenti».

Boubacar racconta i passi da compiere per intraprendere questa complessa procedura: «Bisogna innanzitutto recarsi nel commissariato che detiene il corpo, per identificarlo. Spesso vengo chiamato direttamente dai commissariati quando i parenti delle vittime si presentano lì. Li accompagno nell’identificazione facendo il giro degli obitori quando il cadavere che cercano non si trova tra quelli del commissariato in cui si sono recati».

Ma ci sono dei casi, come quello di domenica 16 giugno, in cui i parenti della vittima non hanno i mezzi per recuperare la salma o semplicemente arrivare sul posto per identificarla. In questo caso Boubacar agisce direttamente per procura. «Ho identificato il corpo grazie a una foto inviatami dalla madre, che dopo aver visto la foto che a mia volta le ho inviato ha confermato che si trattava di suo figlio. A questo punto ho chiamato la Gendarmerie per confermare l’identità del defunto e mi sono recato da loro per redigere il verbale».

Oggi, grazie alla sua esperienza in foresta e la sua attività di volontariato, Boubacar è riconosciuto da tutti gli abitanti di Nador come attore privilegiato nella mediazione culturale con le comunità migranti che vivono nella foresta, tanto che dal 2015 lavora per Asticude, associazione marocchina che si occupa di diritti umani nella regione.

È un agente comunitario, il cui ruolo è facilitare la comunicazione tra gli operatori delle ong che portano avanti progetti di cooperazione e le comunità migranti che vivono nella provincia, orientando e accompagnando le persone verso i servizi esistenti.

È per questo che ci rechiamo all’Ospedale Hassani, dove una donna che da poco ha partorito chiede il suo aiuto per mediare con i dottori rispetto agli accertamenti che suo figlio, ricoverato in pediatria, deve fare prima di poter lasciare la struttura.

Dopo aver avvertito le infermiere dell’arrivo della madre e domandato del medico per poter effettuare questo colloquio, lasciamo Boubacar al suo ruolo di intermediario tra il dottore e Aimée, la giovane madre camerunense che come molte coetanee è arrivata nella foresta di Nador con in grembo il frutto delle violenze subite lungo il suo viaggio, per scambiare due chiacchiere con il ragazzo che l’ha accompagnata nel tragitto dalla foresta all’ospedale.

Ironia della sorte, anche lui si chiama Boubacar ed è originario della Guinea Conakry, ha 26 anni e da sette mesi si trova in Marocco. Ha lasciato mamma e due sorelle minori. Il padre è morto nel 2013, anno da cui la sua voce si è fatta roca e lo ha quasi abbandonato, come le tre mogli lasciate dal padre e che ora devono badare da sole alle loro famiglie.

«Sono l’unico figlio maschio di mia madre, ho due sorelle più piccole e a loro devo badare io», afferma con un filo di voce mostrando sul cellulare le foto che li ritraggono nel giorno della sua partenza.

Del Marocco non conosce nulla. Anche lui, come il suo omonimo, dopo l’arrivo all’aeroporto di Casablanca e un passaggio di due giorni a Rabat è partito direttamente alla volta della foresta. Come molti migranti è arrivato a Casablanca con in tasca il contatto di chi si occuperà di organizzare il suo viaggio.

Si paga in anticipo o si versa un primo acconto, poi si viene orientati in uno dei 15 accampamenti fuori Nador. Lì si può aspettare giorni, settimane o addirittura mesi prima che arrivi il proprio turno di tentare la traversata.

Laureato in sociologia, in Guinea lavorava come trasportatore in una fabbrica di birra. Non il massimo per un musulmano osservante. Il suo obiettivo è arrivare in Francia, dove vorrebbe seguire un corso per diventare operaio meccanico. «Non so bene dove, ma di sicuro non Parigi. Lì la vita è troppo cara e non potrei mandare sufficiente denaro a casa».

Boubacar ha già tentato la traversata due volte. Durante la prima è riuscito ad arrivare a Motril, ma gli accordi siglati tra Spagna e Marocco hanno permesso alla marina marocchina di riportarlo indietro insieme ai suoi compagni di viaggio per poi deportarlo fino a Ouarzazate.

Al secondo tentativo il motore della barca li ha traditi poco prima di giungere in acque internazionali, permettendo nuovamente alla marina di riportarli indietro: destinazione Azilal questa volta. Ritenterà nuovamente, sperando nella volta buona.

 

Fonte: ‘Il Manifesto’