È un ragazzo di appena vent’anni, arrivato dal Mali due anni fa, a mandare il primo decreto Salvini davanti alla Corte Costituzionale.
A partire dalla sua storia, infatti, in tribunale di Ancona ha emesso lunedì un’ordinanza in cui non solo si concede al giovane la residenza nel capoluogo marchigiano ma si solleva anche la questione di legittimità costituzionale sulla parte centrale della legge che porta il nome dell’attuale ministro dell’Interno: i richiedenti asilo possono ottenere la residenza in Italia oppure no?
Il caso è stato sollevato dall’avvocato Paolo Cognini dell’Asgi (Associazione di studi giuridici sull’immigrazione) e la giudice Martina Marinangeli, in diciassette pagine, non solo ha deciso di accogliere le sue istanze ma ha anche rinviato tutto quanto alla Corte Costituzionale, oltre che a Palazzo Chigi e alla presidenza delle due camere parlamentari. Una vicenda che ricorda quanto già accaduto lo scorso maggio a Bologna, con il tribunale che pure aveva concesso la residenza a due richiedenti asilo, ma senza chiamare in causa i giudici costituzionali, cosa che invece è accaduta con l’ordinanza anconetana. Nel primo caso, infatti, Salvini – oltre ad aver innescato le solite letali chiacchiere sulla magistratura politicizzata e sulle sue sentenze – aveva detto che comunque si trattava di «singoli casi», niente in grado di intaccare la legge in sé. Uno stallo giuridico che consentiva alla legge Salvini di sopravvivere e ai comuni italiani di continuare a non concedere la residenza ai migranti anche se titolari di un permesso di soggiorno.«La richiesta di pronunciamento della Corte costituzionale – spiegano adesso dall’Ambasciata dei diritti delle Marche – può fare chiarezza definitiva, con effetti vincolanti, sull’incostituzionalità delle disposizioni in materia di iscrizione anagrafica contenute nel primo decreto Salvini e sulla loro natura discriminatoria».
La miccia che potrebbe far saltare in aria il castello di carte messo in piedi dal leader leghista nella sua attività di governo riguarda la storia di un ventenne maliano, richiedente asilo e titolare di permesso di soggiorno, arrivato in Italia il 20 giugno del 2017 e domiciliato ad Ancona dal novembre dell’anno successivo, quando cioè è stato inserito in uno dei progetti d’accoglienza che operano in città. Lo scorso marzo, il ragazzo aveva chiesto l’iscrizione all’anagrafe ma la sua istanza era stata giudicata dai funzionari comunali «irricevibile ed inefficace». Da qui il ricorso al tribunale attraverso l’avvocato Cognini. Scrive, dunque, la giudice Marinangeli: «il rifiuto opposto dall’ufficiale di stato civile sarebbe illegittimo in quanto il legislatore non ha posto chiaramente un divieto generalizzato di iscrizione anagrafica per i richiedenti asilo dotati di permesso di soggiorno e, in ogni caso, un tale divieto sarebbe in contrasto con norme costituzionali e sovranazionali che vietano qualsiasi discriminazione tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti». E ancora: «la mancata iscrizione all’anagrafe della popolazione residente pregiudica l’esercizio di tutta una serie di diritti», come l’iscrizione a scuola, la firma di un contratto di lavoro, l’apertura di un conto corrente, il poter prendere la patente e così via.
La situazione si era fatta paradossale: il ragazzo non poteva accettare un’offerta di lavoro che gli era stata fatta perché la legge non glielo consentiva. Avrebbe dovuto aprire una partita Iva e prendere la patente di guida, due cose che senza la residenza non si possono fare.
La legge, dunque, secondo la giudice di Ancona discrimina una persona sulla base di una condizione indipendente dalla sua volontà, in palese contrasto con la costituzione italiana e con varie norme sovrannazionali peraltro sottoscritte dal nostro paese.
Questa osservazione, ad ogni buon conto, era stata fatta in precedenza da svariati giuristi: adesso, però, la questione si sposta dal dibattito accademico alle aule della Corte Costituzionale, dove si giocherà il futuro della legge Salvini nella sua essenza più profonda: se i richiedenti asilo potranno tornare a chiedere l’iscrizione anagrafica nei vari comuni italiani, crollerebbe il pilastro centrale di quel provvedimento.
Fonte: Il Manifesto