Il 2 novembre sarà prorogato in maniera automatica il Memorandum d’intesa Italia-Libia sui migranti (Memorandum of understanding, Mou) stipulato dal governo italiano con il governo di Tripoli il 2 febbraio 2017. Nonostante le numerose denunce di violazioni dei diritti umani, gli “inimmaginabili orrori” (documentati dall’Onu nel 2018) nei centri di detenzione libici finanziati dal governo italiano (compravendite di esseri umani, torture, violenze sessuali, stupri e abusi di ogni tipo) “commessi dai funzionari pubblici, dai miliziani che fanno parte di gruppi armati e dai trafficanti”, in un contesto di assoluta impunità, il governo ha deciso di non revocare l’accordo, che sarà prorogato automaticamente per altri tre anni.
Contestualmente al rinnovo tuttavia potrebbero essere introdotte alcune modifiche a cui il governo e in particolare il ministro degli esteri, Luigi Di Maio, sta lavorando da qualche giorno e che dovrebbero essere annunciate il 30 ottobre. L’intesa, che nel febbraio del 2017 fu siglata dall’allora presidente del consiglio Paolo Gentiloni per ridurre gli arrivi sulle coste italiane, prevede l’erogazione di fondi per i centri di detenzione in Libia e l’addestramento e il finanziamento della cosiddetta guardia costiera libica, un corpo militare costituito nel 2017 e formato in molti casi da miliziani e pericolosi trafficanti, come è stato dimostrato anche da numerose inchieste, anche recenti, diffuse da Avvenire, L’Espresso, Propaganda Live.
Secondo fonti vicine al governo, le modifiche su cui si sta lavorando in base all’articolo 7 del Memorandum riguarderebbero la presenza delle organizzazioni umanitarie all’interno dei centri di detenzione, la possibilità di riattivare programmi di evacuazione e rimpatrio e in generale il miglioramento delle condizioni nei 19 centri governativi ufficiali, in cui al momento le Nazioni Unite e le organizzazioni umanitarie hanno un accesso molto limitato (come documentato da molti giornalisti e da diversi rapporti, i centri di detenzione in realtà sono gestiti dalle milizie che si contendono il controllo del territorio). Si chiederebbe alle Nazioni Unite, inoltre, di investire di più nei programmi alternativi alla detenzione, come i programmi “urbani” già attivi a Tripoli che prevedono l’erogazione di contributi per l’alloggio dei rifugiati in un paese che tuttavia non è considerato sicuro dalle autorità internazionali. Le modifiche al Memorandum, che in ogni caso devono essere approvate dalla controparte libica, non cambierebbero l’impianto generale dell’accordo.
Nei centri governativi sono detenute dalle tremila alle seimila persone in condizioni disumane. Unsmil e Ohchr, i due organi delle Nazioni Unite che nel dicembre del 2018 hanno stilato un rapporto, hanno denunciato anche l’incapacità delle autorità libiche di limitare e contrastare le violenze di massa contro i migranti nei centri. Le due organizzazioni avevano già pubblicato un rapporto nel 2016 sulle violenze nel paese nordafricano, ma “nonostante le prove schiaccianti della violazione dei diritti umani, le autorità libiche sono state incapaci o non hanno voluto mettere fine alle violenze”. Decine di rapporti stilati da associazioni e organizzazioni internazionali di difesa dei diritti umani hanno raccolto prove e testimonianze, arrivando alle stesse conclusioni.
Recentemente l’inchiesta di Nello Scavo del quotidiano Avvenire ha provato che uno dei trafficanti con cui Roma ha trattato nel 2017 per bloccare le partenze dei migranti, Abd al Rahman al Milad, detto Bija, è anche venuto in Italia per visitare dei centri di accoglienza insieme a una delegazione di guardacoste libici. Come ricostruito dalla giornalista Francesca Mannocchi sull’Espresso, Bijia, a capo della guardia costiera di Zawya, avrebbe partecipato a diverse riunioni e sarebbe stato ricevuto anche dal Viminale e dal ministero della giustizia, oltre che nella sede della guardia costiera italiana e della missione navale europea Eunavformed.
Nell’intervista di Mannocchi, il trafficante libico ha confermato che ci sarebbe stata una trattativa tra il governo italiano e i libici per il blocco delle partenze dei migranti. Già nel 2017 diverse inchieste avevano messo in luce l’esistenza di una trattativa segreta parallela a quella istituzionale, che sarebbe avvenuta tra la diplomazia italiana e i trafficanti libici, per bloccare le partenze delle imbarcazioni dirette in Italia. Nel mese di luglio del 2017 in una settimana le partenze dalla Libia sono infatti diminuite repentinamente, avviando una tendenza destinata a protrarsi.
Qualche settimana dopo l’improvvisa diminuzione delle partenze, diverse inchieste giornalistiche condotte dalla Reuters, dall’Associated Press e da Le Monde hanno rivelato che le milizie che facevano capo al clan Dabbashi di Sabratha – la Brigata 48 e la Amu Brigade – erano i responsabili del blocco delle partenze. Per la Reuters, la Brigata 48 ha preso soldi dal governo di unità nazionale guidato da Fayez al Sarraj per trattenere i migranti nei centri di detenzione e non farli partire. Per l’Associated Press invece sarebbe stata l’intelligence italiana a condurre trattative segrete con le milizie dei Dabbashi per fermare le partenze in cambio di soldi ed equipaggiamento. Mannocchi su Middle East Eye ha parlato di una tangente di cinque milioni di dollari pagata dall’intelligence italiana ai capiclan di Sabratha.
Un accordo contestato
Il memorandum d’intesa tra Roma e Tripoli è stato oggetto di critiche sia in Libia sia in Italia fin dalla sua ratifica. Avvocati e giuristi ne hanno messo in dubbio da subito la legittimità da tutte e due le sponde del Mediterraneo, perché l’intesa è stata approvata senza nessun passaggio parlamentare. Ma sono stati soprattutto i fondi pubblici usati per finanziarlo a essere stati messi sotto accusa, a fronte delle continue denunce di violazioni dei diritti umani sia da parte della cosiddetta guardia costiera libica sia all’interno dei centri di detenzione governativi. Secondo Oxfam, dal 2017 l’Italia ha speso oltre 150 milioni di euro per pagare la formazione del personale impegnato nei centri di detenzione libici e per fornire mezzi per il pattugliamento in mare e in terra alla cosiddetta guardia costiera. Tuttavia i soldi destinati a finanziare il Memorandum provengono da diversi fondi e non sono completamente noti.
Il 29 ottobre il Tavolo asilo, una federazione di tutte le organizzazioni che si occupano di immigrazione in Italia, ha lanciato un appello al presidente del consiglio Giuseppe Conte per chiedere di revocare l’accordo. “Chiediamo con forza che il governo e il parlamento italiano annullino immediatamente il memorandum del 2017 e i precedenti accordi con il governo libico e che, fatti salvi gli interventi di natura umanitaria, non vengano rifinanziati quelli di supporto alle autorità libiche nella gestione e controllo dei flussi migratori”, è scritto nella lettera.
Il 30 ottobre alle 15 il ministro degli esteri Luigi Di Maio risponderà a un question time alla camera sull’accordo. “Chiederemo al ministro degli esteri una sua valutazione degli accordi e se c’è l’intenzione di modificarli”, spiega la portavoce del gruppo parlamentare del Partito democratico Lia Quartapelle. “Chiederemo che quei campi siano chiusi o che sia garantito l’accesso alle organizzazioni non governative, che siano proposte delle forme alternative alla detenzione come il sostegno agli affitti e che siano aperti dei canali umanitari europei”.
Quartapelle afferma che in ogni caso la maggior parte dei parlamentari del Pd non vuole la revoca degli accordi: “Penso che sia peggio revocare gli accordi che mantenerli, perché in questo modo possiamo fare pressione sul governo di Tripoli”. Di diverso avviso Matteo Orfini che sottolinea: “Il Memorandum fu un errore, mai discusso dal parlamento, perché ha riconosciuto come interlocutore un paese che viola i diritti umani in maniera sistematica e che nasce da un’enorme ipocrisia, far fare ai libici i respingimenti che per noi sono illegali. Oggi abbiamo la certezza di quello che sta accadendo in Libia, quindi l’idea che a tre anni di distanza e con la guerra in corso si vada al tacito rinnovo degli accordi senza una discussione vera in parlamento e nel partito è agghiacciante”. Sulle modifiche Orfini è scettico: “Quegli accordi vanno stracciati, ma se vogliamo continuare a interloquire con il governo di Al Serraj si deve pensare a una radicale modifica di quegli accordi, non a semplici ritocchi”.
Fonte: Internazionale